La media italiana di 29.400€ all’anno non basta per raggiungere le vette retributive teutoniche. A dire il vero nemmeno quelle dei vicini francesi che ci surclassano di oltre 10 mila euro lordi.
Salari bassi colpa del precariato
In Italia i salari bassi sono colpa non solo della stagnante produttivitá del sistema industriale ma anche dal sempre piú diffuso fenomeno del precariato. Secondo un rapporto stilato dalla Fondazione Di Vittorio della Cgil e ripreso dall’Ansa, nel 2021, nell’Eurozona – il salario dei lavoratori – si attesta a 37,4 mila euro lordi annui (+2,4%), in Francia supera i 40,1 mila euro, in Germania i 44,5 mila euro. I salari medi italiani segnano così una differenza di -10,7 mila euro rispetto alla Francia e -15 mila rispetto alla Germania.
A peggio la media nazionale ci sarebbe il frequente ricorso, in diversi settori economici, all’uso da parte dei datori di lavoro, di contratti precari e ultimamente anche la comparsa di “lavoretti” non proprio tutelati come i riders, ad esempio.
Cosa fare per recuperare il gap dei salari

Il gap dei salari rispetto alla media europea è inaccettabile, Per non parlare del confronto con i Paesi sopra la media, come Francia e Germania, che hanno economie e popolazione del tutto paragonabili a quelle italiane eppure ci surclassano pesantemente. Da qui la domanda. cosa fare per recuperare il gap dei salari?
Si deve pensare ad un’azione su più fronti che tenga conto sia della bassa produttività (tra il 2010 e il 2016 la produttività italiana, intesa come Pil per ora lavorata, è aumentata solo dello 0,14% medio annuo. Fonte: Il sole 24 ore), sia dello sproporzionato ricorso in Italia a forme di assunzioni precarie e atipiche, che danneggiano il reddito del lavoratore e che se impiegate su larga scala finiscono per danneggiare l’intero sistema nazionale.
I problemi di fondo
Due problemi frutto di scelte sbagliate risalenti a tanti anni fa e ad un perdurare di decisioni politiche deleterie, incomplete e spesso in contrasto con le necessità del mercato del lavoro (“reddito” di cittadinanza). Per non parlare della politica fiscale che in Italia premia, ad esempio, le aziende che “restano piccole”, andando a tassare maggiormente quando si supera un certo volume d’affari.
Una situazione surreale sopratutto in un Paese che è considerato la seconda potenza manifatturiera d’Europa, dopo la Germania, e che di imprese ampie e strutturare ne ha decisamente bisogno. A ciò si deve aggiungere il fatto che la produttività non può crescere se il tasso di sopravvivenza media di un’impresa neonata non supera il 10% a due anni dall’avvio.
Il fatto che per aprire un’azienda un giovane imprenditore italiano deve avere a disposizione oltre 5.000 euro (tra contributi Inps obbligatori per il primo anno anche se si è in perdita e altre spese) solo per far fronte alle spese di avviamento e quindi non a investimenti produttivi solo primo anno, dà una misura di come nel Bel Paese “avere la partita Iva” sia una vera “impresa”.
Anche il dibattito estivo sul salario minimo è un nonsense. In Italia i contratti collettivi nazionali del lavoro e la Costituzione stabiliscono dei limiti e delle tutele ben precise a vantaggio dei lavoratori, che se applicate in modo totale renderebbero il salario minimo un’istituzione da lasciare a quei Paesi che non avevano previsto a livello socio-lavorativo nessun livello di contrattazione tra le parti.
La via d’uscita
Fatte le dovute analisi sulla situazione odierna bisogna comprendere che i salari non crescono “dal nulla”. Per avere buste paga più pesanti è imprescindibile una crescita poderosa della produttività aziendale, in tutti i settori. La buona notizia, si fa per dire, è che l’Italia ha avuto una produttività ferma praticamente negli ultimi 30 anni. Ciò significa che il potenziale di recupero e crescita è notevole, bisogna solo individuarlo e sostenerlo attivamente da tutte le parti interessate: governo, aziende, lavoratori e sindacati.
Riforma fiscale
Tra le prime cose che andrebbero fatte troviamo la riforma fiscale. Facciamo esempi concreti. L’evasione è altissima perchè manca fiducia nello Stato inteso come istituzione. La cultura italica, a dispetto di quello che si crede, non è propensa a “restituire quello che Dio mi ha dato anche agli altri” come invece avviene in America dove esiste il fenomeno del Giveback, dare indietro.
Oltre oceano le tasse sono scandalosamente basse, ma sorprendentemente gli americani facoltosi danno anche molti soldi indietro a città, ospedali, scuole, università etc. Oltre che a creare nuovi posti di lavoro con la fondazione di nuove aziende, molto spesso con una forte connotazione innovativa.
La riforma fiscale italiana dovrebbe tenere conto di tutto questo. Bisognerebbe rieducare il cittadino affinchè capisse l’importanza delle tasse, che servono per pagare i servizi essenziali, permettendo allo stesso tempo di ridurre il carico fiscale complessivo favorendo, oltre una certa soglia delle contribuzioni volontarie che vadano a coprire interventi statali specifici.
Le tasse devono favorire la crescita aziendale e non penalizzarla. Le aziende devono trovare conveniente fatturare più di 60.000€ all’anno. La produttività deve essere incentivata non penalizzata.
Si sente spesso parlare di cuneo fiscale e giustamente andrebbe abbassato tanto a carico dei lavoratori tanto a carico dei datori di lavoro. L’aliquota più bassa dell’Irpef dovrebbe non superare il 15% e quella più alta non dovrebbe andare mai oltre il 39%. Il carico fiscale complessivo, per legge, non dovrebbe mai superare il 49%. Oggi si arriva al 60% di media con punte del 68%.
Ottimizzazione della spesa pubblica
Meno tasse, un’ottimizzazione della spesa pubblica che si deve indirizzare verso un potenziamento delle infrastrutture nazionali materiali e immateriali in modo da consentire al Paese di diventare competitivo. Gli sprechi, le spese ridondanti, gli interventi una tantum, i finanziamenti folkloristici vanno eliminati. Non spetta al governo finanziare la sagra dell’anguria (giusto per fare un’esempio).
Lo Stato deve dare un’immagine di se improntata all’efficenza estrema, sopratutto nel gestire le tasse pagate dai contribuenti. La sanità, i servizi al cittadino, le pensioni e tutto il welfare che l’Italia è riuscita a creare per i suoi abitanti non solo devono essere tenuti ma anche migliorati sempre di più. Questo è possibile se tutti pagano le tasse, il giusto, e se lo Stato le usa in modo efficiente.
Tra gli sprechi della spesa pubblica rientrano anche gli interventi realizzati a scopo di sussidio pubblico. I soldi si devono lavorare. Non esiste che delle persone sane di 28 anni prendano una paghetta di Stato. La povertà non è stata abolita, anzi si sono create sacche ancora più dipendenti dal sussidio pubblico totalmente incapaci di reinserirsi nel mondo del lavoro.
Lo stesso sussidio di disoccupazione andrebbe dato per pochi mesi e a patto di una vera ricerca di lavoro quando si è giovani e per più tempo oltre una certa soglia di età. A qualunque età percepire denaro senza partecipare a corsi di riqualificazione per 18 mesi è semplicemente assurdo oltre che insostenibile.
Interventi a favore delle persone in difficoltà occupazionale

Ma se reddito di cittadinanza e disoccupazione sono “eccessivi” e deleteri cosa bisogna fare? Bisogna ad esempio aumentare le pensioni di invalidità. Creando un sistema di controlli più efficace in modo da evitare le truffe.
I disabili, quelli che non possono lavorare, devono percepire un assegno sociale che permetta di vivere una vita degna. Chi può lavorare parzialmente deve essere occupato nei servizi pubblici e nelle aziende private, anche part-time, tramite l’intermediazione di appositi uffici pubblici per l’impiego.
La riforma dei servizi per l’impiego deve essere strutturale, di ampio respiro, volta a offrire servizi che vadano oltre la mera “attestazione dello stato di disoccupazione” ma che siano in grado di prendere per davvero in carico un cittadino in cerca di lavoro.
Corsi di formazione, tirocini formativi, inserimenti in azienda, segnalazioni ai servizi sociali del Comune quando necessario.
La vera novità sarebbe la gestione di cantieri lavorativi nazionali per chi è in grado di lavorare che vadano a sostituire le “paghette di stato”.
Piani di lavoro che diano un’occupazione stabile per 12 mesi alle persone disoccupate in cerca di lavoro da almeno 6 mesi, con uno stipendio dignitoso, pagato anche in base al titolo di studio (meritocrazia) come vera misura anti-povertà, dal carattere dignitoso oltre che propedeutico alla creazione di valore aggiunto.Tale misura andrebbe affiancata a paralleli, precedenti e successivi servizi di orientamento, presa in carico, formazione o riqualificazione professionale volti a migliorare le possibilità di reinserimento lavorativo a lungo termine del soggetto disoccupato.
Creazione di Hub pubblici per la ricerca e sviluppo
Con la collaborazione del sistema universitario pubblico si dovrebbero creare degli Hub pubblici per la ricerca e lo sviluppo. Hub che siano in grado di portare a compimento il trasferimento tecnologico dalle università al tessuto industriale locale e che eroghino servizi di R&D a tutte le PMI che non possono permettersi di “farlo in casa”, dando un enorme opportunità di crescita all’intero tessuto produttivo nazionale.
Tale sistema sarebbe in grado, da solo, di migliorare enormemente il livello di produttività delle aziende e il tasso di nascita di nuove realtà imprenditoriali.
Conclusione
Tale misure sono solo alcuni esempi che potrebbero essere implementati nel sistema italiano per far aumentare in modo organico e strutturale gli stipendi dei lavoratori.
A quel punto, e solo a quel punto i sindacati dovrebbero “fare la loro parte” andando a contrattare stipendi che tengano conto delle migliorie avvenute in termini di produttività.
Ma con un sistema di stagnazione produttiva, richiedere aumenti salariali finirebbe solo per rendere ancora meno competitive le aziende italiane. Prima bisogna creare valore, poi distribuirlo in modo equo e giusto.
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